Lorelei

Questo racconto è stato scritto per il Caffé Letterario.

«Di’ un po’, Carlo, ma tu l’hai capito il principio di Hamilton con la variazione anche del tempo?»

L’autobus tardava più del solito e Luca stava rimuginando la lezione di meccanica relativistica.

Carlo rispose socchiudendo le palpebre, piegando la testa un po’ a sinistra, mandando all’ingiù gli angoli della bocca e alzando lievemente le spalle; una mimica che un estraneo avrebbe potuto interpretare come «ma che banalità mi stai chiedendo»; Luca invece, che lo conosceva bene, l’interpretò correttamente come un «ma chi se ne frega».

«Possibile che non ti interessi? È la chiave di volta per gestire tempo e spazio allo stesso modo. E per restare terra terra, l’esame dovremo pur darlo, e sembra roba piuttosto dura. Se cominciamo a perderci già all’inizio, come faremo?»

Carlo ripeté il gesto di prima, con la variante di piegare la testa a destra; poi si sporse dalla pensilina per vedere se l’autobus era in arrivo. Sbuffò, emettendo una nuvoletta nell’aria tersa e pungente di una delle prime giornate d’inverno.

«Hai ragione, è un punto chiave».

Per un attimo Luca aveva creduto che fosse la voce di Carlo ma si era subito reso conto che Carlo non aveva una voce così roca, e comunque difficilmente avrebbe detto quelle parole. Non c’era nessun altro lì alla fermata; Luca ebbe un brivido e comiciò a guardarsi intorno.

La voce riprese: «Non è difficile; il contributo della variazione del tempo è nullo».

Ho sempre insegnato che tempo e spazio non esistono separatamente ma solo fusi insieme nello spazio-tempo. Ma se davvero il tempo fosse uguale allo spazio io adesso mi girerei, tornerei sui miei passi, camminerei, camminerei, camminerei fino ad arrivare da te, amore mio.

Da sotto un mucchio di cartoni ammassati in una rientranza del muro, che prima non aveva notato, stava spuntando una testa che sembrava quella di un selvaggio, con una gran massa di capelli arruffati, neri ma con molti spruzzi di canizie, e una enorme barba incolta, ispida e completamente bianca. La pelle del viso – quel poco che se ne vedeva – ad un primo sguardo poteva sembrare abbronzata, ma alcune macchie e striature rivelavano che doveva invece essere solo sporca.

«Lei conosce la meccanica relativistica?»

«Mistrelli, il vostro insegnante, è stato mio studente, e poi mio assistente, fino a pochi anni fa. E non ha mai saputo spiegare il principio di Hamilton».

La comparsa di questo strano personaggio era stata abbastanza insolita da catturare l’attenzione anche di Carlo, che si era voltato nella sua direzione e lo stava guardando con occhi spalancati per lo stupore.

Nel frattempo l’autobus era finalmente arrivato e si stava fermando davanti alla pensilina. Luca si ritrovò a dire: «Possiamo invitarla a pranzo con noi, professore?»

Il barbone non se lo fece ripetere e, con un’agilità insospettabile, balzò fuori dai cartoni, facendo mostra di un cappotto sporco, liso all’inverosimile e troppo grande per lui, chiuso da un unico bottone superstite; i polpacci erano nudi; ai piedi, senza calze, scarpe che dovevano essere state di gran lusso un bel po’ di tempo prima.

Carlo si chinò verso l’orecchio di Luca per sussurrargli: «Ma che cosa ti è saltato in mente di invitare questo sacco di pulci? Non vorrai mica portarlo a casa, andiamo alla Trattoria dello Studente».

Rinunciarono all’autobus e si incamminarono. Alla trattoria il barbone non era sconosciuto. Rodolfo, il gestore, invece di storcere il naso come Luca aveva temuto gli si era rivolto allegramente: «Ehi, Bruno, oggi sei riuscito a entrare dall’ingresso principale, vedo!»

Il rumore di fondo era elevato; i clienti più vicini si erano voltati a guardare con stupore, ma la maggioranza non s’era nemmeno accorta del loro ingresso e continuava tranquillamente a mangiare e a parlare. C’erano ancora due o tre tavoli liberi; Rodolfo li accompagnò strategicamente a quello vicino all’ingresso della toilette, che era seminascosto dietro un angolo del muro.

Carlo e Luca ordinarono spaghetti all’arrabbiata e Bruno si accodò. Mangiò silenziosamente, in maniera educata e composta, anche se con una certa fretta che tradiva la sua fame: fu il primo a terminare.

Quando anche i suoi commensali ebbero finito, con un gesto deciso Bruno spinse sul bordo i piatti per fare spazio al centro della tavola. Carlo ebbe i riflessi pronti e scattò indietro, facendo stridere la sedia sul pavimento, nel timore di spruzzi di sugo.

Bruno intinse il dito indice nel sugo del proprio piatto e comiciò a tracciare formule sulla tovaglia di carta.

\frac{d}{dt} \{ L-\sum_{i=1}^3 \frac{\partial L}{\partial \dot{x}_i} \dot{x}_i \} - \frac{\partial L}{\partial t}=0

«Questo è chiaro?»

Lo sguardo di Luca era terrorizzato, come se stesse sostenendo un esame: Bruno si rese conto che non era chiaro per nulla. Carlo, intanto, si stava perlustrando il maglione alla ricerca di eventuali macchie.

«Esplicito la derivata totale della lagrangiana rispetto al tempo».

\frac{\partial L}{\partial t} + \sum_i \frac{\partial L}{\partial x_i} \dot{x}_i + \sum_i \frac{\partial L}{\partial \dot{x}_i} \ddot{x}_i

Dopo una decina di minuti, nonostante Rodolfo avesse portato via i piatti, non c’era più un angolo di tovaglia libero da formule e Luca aveva capito, davvero, perché il contributo della variazione del tempo è nullo. Carlo riemerse dalla toilette dove si era rifugiato e, vedendo che Bruno non stava più scrivendo, si azzardò a riprendere posto.

«Ma questi sono solo dettagli, tecnicismi» stava dicendo Bruno. È più grave che Mistrelli non vi abbia parlato – sono certo che non l’ha fatto – della filosofia che sta dietro al principio di Hamilton. Vi dice niente questa frase: “Il migliore dei mondi possibili”?»

Luca, sempre in sindrome da esame, cercò freneticamente nella memoria ma non gli si accese nessuna lampadina. Fu Carlo, invece, a rispondere.

«Leibniz».

«Bravo. E poi Maupertuis. Lagrange. E infine Hamilton. Sempre più matematica, sempre meno filosofia. Ma tutto nasce dal desiderio di spiegare il male nel mondo».

– Lorena, questo è il migliore dei mondi possibili, lo sai perché?

– Ma no, Bruno, dimmelo: questa storia è nuova, non l’ho proprio mai sentita.

Lorena sorrideva ironicamente, ma si capiva che era compiaciuta da quel ritornello già ripetuto infinite volte.

– Perché qui vicino a me ci sei tu, la mia Lorelei.

– Sempre con questo nomignolo! Lo sai che non mi piace!

– Ah sì, tu sei la mia Lorelei, non dire di no, mi hai stregato, mi butterei nel fiume per te!

«La presenza del male nel mondo non si concilia con l’esistenza di un amor che move il sole e l’altre stelle, di un motore immobile perfetto di ogni perfezione, quindi anche onnipotente e infinitamente buono».

«Anselmo, Gödel» disse Carlo.

Bruno annuì con un cenno del capo. «Questo è un problema, anzi è il problema eterno della filosofia, ma non solo: della vita».

«Sì, ma… che cosa c’entra con il principio di Hamilton?» domandò Luca in un sussulto di coraggio.

«Ma come, non lo vedi? Il principio di Hamilton descrive la miglior traiettoria possibile. Il mondo evolve nel migliore dei modi possibili. Il male è un’illusione, perché semplicemente non potrebbe esserci nulla di meglio di quel che c’è».

«Posso cambiare la tovaglia?» Rodolfo sembrava timoroso, gli dispiaceva aver interrotto la discussione.

Tra l’arrosto di vitello con patate e il dolce della casa, tra un bicchiere di rosso e l’altro, Bruno fece in tempo a dire tante altre cose, ma non raccontò nulla di sé.

Non disse della sua Lorelei, ammalata di una malattia a progressione lenta ma inesorabile, che necessitava di cure e di assistenza continua e si era lasciata irretire da una specie di santone conosciuto su internet: a carissimo prezzo le spediva dei rimedi assolutamente inutili, promettendole la guarigione.

Non disse che lui mai e poi mai le avrebbe tolto quest’ultima speranza.

Non disse del suo stipendio da professore, insufficiente a pagare tutte le spese, né che lui, proprio lui che era sempre stato severissimo, lo spauracchio degli studenti, aveva cominciato a vendere gli esami.

Non disse dello studente che l’aveva denunciato, né dell’espulsione per indegnità, né della galera.

Non disse che con la sua pensione pagava le rate di tutti i debiti che aveva contratto.

Quando uscirono dalla trattoria erano ormai le tre. Luca, in maniera molto goffa, tirò fuori dal portafogli un biglietto da cinquanta e lo porse a Bruno, balbettando «Mi permetta…»

Bruno rifiutò decisamente, portando avanti una mano quasi ad allontanare da sé il biglietto: «Non se ne parla, vi sono già grato per avermi invitato a pranzo».

«Ma perché?» Luca ritirò la mano protesa, ma non mise via il biglietto. «In fin dei conti ci ha tenuto una lezione…»

Bruno ricordò che c’era qualcosa che gli sarebbe servito comprare e decise di accettare. «Se proprio vuoi dammene dieci, cinquanta sono troppi».

Intascò la banconota nel lurido cappotto, ringraziò e se ne andò.

Luca e Carlo avevano lezione alle quattro. Tornando in facoltà, Luca commentò lo strano incontro.

«Che tipo, vero? Chissà come ha fatto a ridursi così. Ma non è affascinante questa storia del migliore dei mondi possibili? Non avevo idea che ci fosse tanta filosofia dietro a quelle formule».

«Sono tutte stronzate. Io la penso come Voltaire: se questo è il migliore dei mondi possibili, come potranno mai essere gli altri?»

* * *

Bruno stava camminando in fretta; sperava di arrivare in tempo allo spaccio di materiale militare usato dove, lo sapeva, con dieci euro avrebbe potuto comprare due coperte pesanti, di quelle per i cavalli, di lana grezza e ruvida, puzzolenti ma molto calde. Purtroppo, invece, lo trovò già chiuso. Provò a bussare, piano, poi più forte. Per lui era importante.

Dopo un po’ si aprì una finestra al primo piano. «Aoh, vecchio rimbambito, non lo sai che al venerdì si chiude prima? Vai a rompere i coglioni da qualche altra parte!»

A passo lento si incamminò verso il suo giaciglio. Quando arrivò, quasi tre ore dopo, vide che qualche compagno di sventura aveva approfittato della sua assenza per saccheggiare l’unica sua ricchezza: gli restavano solo tre cartoni.

Ormai era buio e l’aria era diventata decisamente fredda. Si coricò, cercando di coprirsi alla meglio. Era stanco per la lunga camminata e presto, nonostante i brividi, si addormentò.

Nel sogno Lorelei era sana, giovane, e splendida nel suo bikini. Erano sulla spiaggia dove si erano conosciuti tanti anni prima. Il mare era calmo, il sole alto nel cielo sereno, faceva caldo. Lei lo tirava per una mano, saltellando per l’impazienza. Bruno si rese conto di essere anche lui in costume da bagno, e giovane, pulito, sbarbato, in forma. La sabbia scottava sotto i suoi piedi nudi.

«Dài, Bruno, dài, che cosa aspetti? Vieni con me: è questo il migliore dei mondi possibili

Bruno si lasciò tirare e la seguì.

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9 risposte a Lorelei

  1. Alessandra Bianchi ha detto:

    Rinnovo qui i miei complimenti.

  2. Meraviglioso… complimenti 🙂

  3. Alessandra Bianchi ha detto:

    Sei proprio bravo, ma scrivi di più, pigrone 😛
    Un abbraccio!

    • vpindarico ha detto:

      Hai ragione, sono pigro, ma non solo: purtroppo ho anche poco tempo.
      Ho già in mente i prossimi cinque o sei racconti di questa serie, bisogna proprio che mi decida a picchiare sulla tastiera.
      Grazie del complimento e dello stimolo.

  4. Pingback: Complottista | Uno sguardo sul ciberspazio

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